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La zuppa compare già nel 1600, citata in alcuni ricettari della nobiltà lucchese.
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L’etimologia del nome non è del tutto chiara: c’è chi dice venga dal termine dialettale “garmugiare”, cioè “mescolare tante cose insieme”, e chi lo fa derivare da “germoglio” o “garbuglio”, visto che è piena di verdure novelle e “ingarbugliate”.
Nasce come piatto primaverile: in campagna, tra marzo e maggio, maturavano fave, piselli, carciofi e asparagi, e la zuppa rappresentava un modo per celebrare il ritorno della bella stagione dopo l’inverno. Era un piatto “verde”, fresco e nutriente, ma nello stesso tempo abbastanza ricco da sostenere i lavori agricoli.
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Anche se oggi viene vista come una minestra “contadina”, in origine era considerata un piatto da signori: la carne (vitello, pancetta, lardo) era preziosa, quindi solo le famiglie benestanti potevano permettersi la versione ricca.
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I contadini invece la preparavano con le stesse verdure, ma senza carne oppure con Frattaglie o scarti dei ricchi ( la cresta di Gallo per esempio), o insaporita solo con pane raffermo e un filo d’olio.
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La tradizione vuole che si cucini tra aprile e maggio, quando ci sono fave fresche, piselli teneri, carciofi giovani e asparagi di stagione. Era un po’ il segnale che l’inverno era finito e si poteva festeggiare con i frutti nuovi dell’orto.
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Era anche una minestra “rinvigorente”: dopo i mesi freddi e poveri, questo concentrato di verdure e proteine serviva a rimettere in forze.
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La Garmugia non è mai stata un piatto “da osteria”, perché troppo casalingo e legato alle disponibilità dell’orto. Per questo è rimasta a lungo una ricetta quasi segreta di famiglia, diversa da casa a casa: c’è chi ci mette un po’ di pancetta, chi solo vitello, chi aggiunge lattuga o bietola.
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A Lucca ancora oggi si dice che la vera Garmugia “te la insegna la nonna, non il libro di cucina”.
Si narra che, nel Seicento, un ricco mercante lucchese ospitasse a cena dei nobili stranieri.
Il cuoco di casa, però, non aveva ricevuto in tempo la selvaggina promessa dal padrone. Per non fare brutta figura, prese le verdure fresche dell’orto — piselli, fave, carciofi, asparagi — e ci aggiunse un po’ di vitello macinato e lardo, “quel poco che bastava” a dare sapore.Il piatto piacque così tanto che i nobili chiesero il nome della minestra. Il cuoco, preso alla sprovvista, rispose con una parola inventata sul momento:
“È… la Garmugia, signori!”Da allora, si dice che la zuppa rimase in voga sulle tavole lucchesi, passando da piatto d’emergenza a ricetta celebrata, simbolo dell’arte di arrangiarsi con fantasia.
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